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Il distretto del ferro lecchese

Tratto da “Note per la storia della Famiglia e della Ditta Badoni”, redatte in occasione delle celebrazioni “Italia ‘61” a Torino in commemorazione del Centenario dell’Unità 1861-1961

Chi considera oggi la città di Lecco, che con le sue numerosissime fabbriche e importanti complessi  siderurgici e metalmeccanici, occupa uno dei primi posti nell’industria nazionale, si domanda come è sorta questa specializzazione nella piccola città prealpina.

Le origini di questa attività sono remote e dovute alla posizione della stessa città, posta su un nodo di antiche vie di comunicazione, incuneata fra i monti che chiudono la Valsassina, da dove le veniva la materia prima e da dove scendono torrenti perenni che, attraverso una lunga serie di salti naturali e canalizzazioni artificiali, fornivano l’energia idraulica necessaria per la lavorazione del ferro.

Specialmente intorno ad uno di questi torrenti, il Gerenzone, si concentravano le prime fucine ed i magli ad acqua che trasformavano il ferro in barre e in lastre per gli usi civili e guerreschi.

Una notevole aliquota del ferro prodotto nella zona era però impiegata nella preparazione dei trafilati, i quali finirono per diventare la principale specialità della produzione siderurgica locale, ancora oggi tipica di Lecco.  

Questa lavorazione ha origini molto lontane. Leonardo da Vinci, che fu nel territorio di Lecco sul finire del 400 si sarebbe ispirato per i suoi Modelli di trafile e di laminatoi, illustrati nel Codice Atlantico, ad impianti del genere visti in opera a Lecco. 

Questi impianti, dei quali esiste ancora a Lecco, qualche rarissimo esemplare, (del quale bisognerebbe impedirne la demolizione), risultavano costituiti verso la fine del 18° secolo, secondo note di Luigi Apostolo, da 50 fucine con maglio, da 60 “curri” cioè filiere per la trafilatura del ferro e da molte piccole fucine per la lavorazione di utensili minori.

Le fucine si dividevano in due grandi categorie: le fucine grosse o magli grossi e le fucine piccole o maglietti. Si lavorava nei grossi magli la ghisa grezza proveniente dalla Valsassina, che veniva convertita in pani ossia in masselli e indi in “quadri”.

Questi venivano poi trasmessi ai piccoli magli che li riducevano in verghe di forme varie (tondinelle, quadretto, reggia e verghetta) per la produzione del filo di ferro e arnesi di ogni genere.

Ciascuna delle fucine grosse bastava ad alimentare i magli più piccoli, ne consegue che esse appartenevano necessariamente in comproprietà a più consorti.

L’esercizio consortile delle fucine grosse soleva essere distribuito fra i comproprietari in ragione di “dodicesimi” (tempi) corrispondenti ai 12 mesi dell’anno, per Modo che ciascun consorte esercitava la fucina grossa per uno più mesi in norma del maggiore o minore suo carato.